Si riaffaccia sulla scena il post rock (o post metal…) dei Tides From Nebula. Con un andamento sin qui un pò altalenante, ecco fresco di stampa Safehaven, quarto lavoro della band di Varsavia che segue il più che discreto Eternal Movement (2013).
Il disco è auto prodotto ma, a mio parere, la semina avvenuta da parte di Christer-André Cederberg nella precedente occasione ha lasciato qualche frutto postumo.
Di certo il sound del quartetto polacco si è spostato dall’estrema profondità di Earthshine a vantaggio di un generale snellimento delle trame ma, come dicevo, anche in Safeheaven, pur se sporadicamente, qualcosa rimanda a certe aperture imperiose dei Anathema.
Il nuovo album dunque rimescola le carte in tavola, abbrevia la durata e segna probabilmente quello step per il quale il predecessore aveva gettato solo le basi. Il gruppo si è ritrovato a metabolizzare le esperienze passate con il risultato di produrre il disco più scorrevole sin qui inciso, quello che più di ogni altro possiede un impatto immediato e offre ora un ritratto compiuto del loro sound.
I Tides From Nebula adesso abbracciano per intero molti dei postulati di genere, colorando di sonorità eteree o esplosive la loro tavolozza sonora a secondo dei momenti e degli stati d’animo. A frammenti melliflui ed evocativi si possono infatti sovrapporre brusche accelerazioni, comunque attraversate da una grande tensione emotiva; affidandosi a composizioni solamente strumentali il pathos, gioco forza, rimane affidato solo alla musica.
E così, oggi più che in passato, è possibile accostare il loro suono a quello di ottime band munite di un cospicuo bagaglio di esperienza, penso a God Is An Astronaut, Mogwai, ecc. Un bacino musicale dove in effetti molto è stato già detto ma in cui credo i polacchi possano non sfigurare.
Il mood, l’atmosfera, i landscapes sonori sono alla base del viaggio in musica che si apre con la title track dove un fitto intreccio delle chitarre (Adam Waleszyński) e delle keyboards (Maciej Karbowski) si inerpica su di una ritmica dapprima costante e poi più serrata.
Avvio potente e quasi rabbioso per Knees To The Earth, dramma e tensione nel concitato dialogo tra chitarre e tastiere che sfuma in un break sognante prima di ripartire con ancora più enfasi. Buono il lavoro della ritmica ( Przemysław Węgłowski – basso e Tomasz Stołowski – batteria) ed un epilogo molto largo, ad ampio respiro.
Un episodio forse in tono minore, l’unico dell’album (All The Steps I’ve Made) e la band riprende a macinare immaginazione e sogni con The Lifter, caratterizzata inizialmente da un andamento melodico più easy. Ben presto però i suoni si increspano, la trama diviene più fitta ed articolata, il basso imprime una linea molto netta.
Il passaggio migliore del lotto, Traversing, vive due fasi ben distinte: la prima è densa, popolata dal contrasto tra una ritmica corposa e gli interventi di chitarre e keys a tratteggiare la melodia. La seconda, più incisiva e lacerante, è chiusa da un moto ascendente.
Un accenno di elettronica nella breve e pulsante Colour Of Glow, destinata poi a planare dolcemente. Un nuovo colpo di reni con la vibrante We Are The Mirror e quindi la conclusione sospesa tra ritmo battente e sciabolate della chitarra, in un andamento ad espandersi supportato attivamente dalle tastiere (Home).
Non so se sia corretto ritenere Safehaven la quadratura del cerchio per i TFN ma, sicuramente, da la sensazione di essere l’album più maturo. Nessuna pretesa di idee sconvolgenti o strabilianti innovazioni, semplicemente fanno bene ciò che sanno fare.
Max