Terminate le registrazioni con gli Yes per lo sfavillante Going for the One, Rick Wakeman decide di rimanere a Montreux (Svizzera) e trattenersi presso i Mountain Studio per incidere il settimo album del suo percorso solista.
Il tastierista si trova di nuovo in uno stato di grazia del quale vuole subito approfittare; del resto ha le idee chiare, un progetto preciso: un concept basato sulla storia del crimine, comprendente luoghi e personaggi relativi. Una carrellata noir, cupa e tenebrosa, quasi totalmente strumentale, guidata in gran parte dallo sconfinato arsenale di tastiere del protagonista che arruola per alcune sezioni i sodali Chris Squire ed Alan White, ai quali si aggiunge poi il percussionista Frank Ricotti, già presente in The Six Wives of Henry VIII.
E così, sul finire del 1977, A&M pubblica Criminal Record, disco che riceve un’accoglienza piuttosto tiepida (complice il periodo) ma che in realtà a mio vedere resta una delle prove più coese offerte dal Rick Wakeman solista. Tre brani per lato disegnati da traiettorie imprevedibili, quando arrembanti e travolgenti, e quando invece impregnate di dolcezza e malinconia. Ogni stato d’animo viene ritratto nota per nota con la cura maniacale di chi dispone di una tecnica sopraffina ma sa pure come scuotere le emozioni di chi ascolta.
Il primo lato si apre con Statue of Justice, introdotta da arpeggi del piano a coda Steinway cui si vanno aggiungendo scale (a velocità incontrollata) di clavinet e organo, prima dell’entrata in scena del Moog; qui il brano si innalza con l’ingresso di Squire e Alan White che conferiscono un senso ancor più maestoso al brano. Stop and go di tipica marca Yes, il basso che martella le sue linee senza pause e Wakeman a dominare con le sue keyboards.
Di nuovo il piano ed un tocco felpato per Crime of Passion; una melodia che pare giungere da lontano prende progressivamente campo mentre sullo sfondo il Rickenbacker di Squire comincia a premere con decisione. Si eleva il ritmo, pulsante, mentre Wakeman dilaga come un fiume in piena tra cambi di ritmo e invenzioni sorprendenti prima di riagganciarsi al tema iniziale.
Chamber of Horrors punta su di un’atmosfera incombente alla quale in seguito contribuisce in buona misura il duo ritmico. Wakeman si diverte a svariare tratteggiando figure ed immagini attingendo alla miriade di suoni dei quali dispone, alternando segmenti isolati ad altri corali.
Il secondo lato prende inizio con Birdman of Alcatraz, eseguita con incredibile maestria al piano dal biondo tastierista inglese. Un passaggio emozionante, tra accordi sognanti e profondi dello Steinway che mettono in risalto le smisurate doti di R.W.
The Breathalyser si snoda come una sorta di divertissement nel quale il musicista si concede un poco di autoreferenzialità, forse il pezzo meno pregnante benché non privo di colpi di scena, come quando prima dell’epilogo vira in un blues sul quale a declamare è la voce di Bill Oddie, attore e musicista britannico.
La chiusa è consegnata a Judas Iscariot, traccia più imponente con i suoi 12 minuti di sviluppo. L’organo a canne della chiesa ed il coro Ars Læta Choir of Lausanne conferiscono una incredibile ed austera drammaticità al pezzo nel quale Wakeman scatena tutta la sua emotività struggente, un vortice di sensazioni ed emozioni che vanno indietro nel tempo, in una dimensione fiabesca, mistica, ma al tempo stesso di disperata tragedia.
Uscito a poca distanza dall’album della casa-madre, Criminal Record non ne ripete il successo e di certo non possiede la medesima forza d’urto nel songwriting ma, restando alla carriera solista, si conferma a distanza di tempo come uno dei momenti più a fuoco del gigante inglese.
Max