Mike Oldfield – Five Miles Out (1982)

Pubblicato: febbraio 19, 2022 in Recensioni Vintage
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Dopo lo stratosferico e sorprendente esordio con Tubular Bells (1973), Mike Oldfield ha compiuto un percorso discografico di alto rango fino a che, a cavallo tra i decenni ’70 e ’80, qualcosa ha cominciato ad incepparsi. Platinum in particolar modo ed il seguente QE2 ravvisano qualche segno di cedimento, l’ispirazione del poli-strumentista di Reading non pare più così vivida ma in qualche modo si avverte l’esigenza di Oldfield di non rimanere prigioniero delle…campane tubolari.

Ecco che i due dischi sopracitati possono essere definiti di transizione ma contengono già i germi di quella virata pop/rock che si avvia proprio con QE2 e comincia a concretizzarsi poi, nel 1982, con Five Miles Out.

Oldfield, pur mantenendo lo status di poli-strumentista chiama a raccolta alcuni musicisti già presenti nel tour precedente con lo scopo di snellire le composizioni, dando loro un accento più commerciale e di insieme, cercando inoltre di ridimensionare quella figura di musicista-asceta prodotta dai primi album. E’ un gioco di sottili equilibri che poggia sulle peculiarità dell’artista, sulle sue rinnovate velleità ed anche su indicazioni (o meglio, pressioni) esercitate  dalla  casa discografica, quella Virgin di Richard Branson Tom Newman che ha debuttato proprio insieme a lui con Tubular Bells.

L’intento iniziale dunque trova forma in Five Miles Out, un lavoro in effetti diviso in due parti dove la prima facciata prevede una lunga suite (Taurus II) che è lo sviluppo e la lunga elaborazione di Taurus 1 presente su QE2. Il secondo lato invece si suddivide in quattro brani, tre dei quali in formato canzone, dal piglio molto più disinvolto e alla cui stesura partecipano anche alcuni dei musicisti coinvolti, tra i quali il chitarrista Rick Fenn (ex 10cc), la cantante Maggie Reilly ed il percussionista, pianista ed arrangiatore Morris Pert (ex Brand X).

Con questa modalità prova ad ampliare la platea di ascoltatori cercando al tempo stesso di soddisfare gli appassionati storici; commercialmente il piano ha successo perché il disco ottiene i migliori riscontri in assoluto proprio in Inghilterra ed in Germania, offrendo un’immagine aggiornata del musicista inglese.

Il disco fa parte di quella categoria che ho da sempre definito “a rilascio lento”: il primo ascolto lascia in buona parte perplessi, la suite pare ricalcare modelli precedenti e alcune tracce del secondo lato hanno un impatto piuttosto contrastante. Man mano però che gli ascolti si susseguono ecco che le cose si stabilizzano, diventa più facile leggere tra le righe e riuscire ad inquadrare meglio ed apprezzare Five Miles Out, un lavoro non certo epocale ma di una stretta rilevanza nella traiettoria artistica di Mike Oldfield.

L’imponente Taurus II occupa interamente la prima facciata con un’estensione di quasi 25 minuti e regala l’intera e variegata tavolozza di colori ed emozioni usuali per l’artista britannico: l’incedere epico, i break fulminei a sganciare totalmente una sezione dalla successiva, gli inserti vocali molto evocativi (Maggie Reilly), gli avventurosi passaggi capaci di attingere da atmosfere medievali con accenti folk (palpabili grazie alle uillean pipes di Paddy Moloney) o di proiettarsi invece verso ascese turbinose, le distese riservate alla chitarra ed il corredo del nutrito arsenale di tastiere tra le quali non può mancare (siamo nel 1982) il Fairlight.

Una suite ben congegnata e pure fluida, scorrevole; sicuramente su questa misura Oldfield ha fatto di meglio ma merita comunque una valutazione apprezzabile.

Il secondo lato rivela un’anima molto diversa, per lo meno in gran parte. Lo annuncia l’iniziale Family Man dal piglio “sfacciatamente” pop: buon ritmo, riff sporchi della chitarra e la voce riverberata della Reilly, sognante e sensuale, su di un tessuto quasi dance.

Orabidoo si pone invece come ponte tra il primo ed il secondo lato del disco. Un’introduzione dolce, eterea, nella quale il brano letteralmente galleggia sospeso, anticipa l’ingresso della voce filtrata da un vocoder; il ritmo prende lentamente ad intensificarsi sottolineando improvvise aperture melodiche sino ad una impennata di keyboards e percussioni. Qui lo scenario muta di nuovo per andare incontro ad una dimensione dapprima orchestrale e poi acustica, intima, guidata dalla voce della cantante.

Mount Teidl registra l’ospitata di lusso di Carl Palmer per una traccia strumentale in crescendo condotta essenzialmente da percussioni, batteria, tastiere e chitarra, dalle quali scaturisce un suggestivo ed avvolgente sound.

Infine in coda la title track che decolla in modo simile a Family Man e mantiene un approccio molto dinamico nel quale si distingue anche il basso, più presente del solito.

In definitiva Five Miles Out centra il bersaglio, nel senso che una sterzata ed un riassetto erano necessari per non restare ancorato ad un paradigma, seppur di fine qualità. La storia successiva racconterà anche altro…

Max

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