Uriah Heep – High and Mighty (1976)

Pubblicato: febbraio 9, 2022 in Recensioni Vintage
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UH HaM

Con l’ingresso di John Wetton al posto dell’ormai fuori controllo Gary Thain, gli Uriah Heep stanno cercando di raddrizzare il tiro dopo che Wonderworld ha indicato qualche perplessità: sin qui forse il meno ispirato, il primo a fronte di una sfolgorante discografia nella quale la band si è distinta per un ottimo hard-rock, dapprima di stampo psichedelico e poi capace pure di intriganti pennellate a tinte progressive.

Il 1975 vede dunque l’uscita di Return to Fantasy che registra una buona accoglienza nel Regno Unito e nel resto del continente mentre negli States fa più fatica a scalare le classifiche. Il gruppo (in particolare il tastierista Ken Hensley) non è troppo soddisfatto del risultato e di li a qualche mese torna in studio. Hensley ha già del materiale abbozzato e comincia alacremente a lavorare ad altri brani, riconquistando le redini della guida compositiva che nei due album precedenti era invece stata collegiale.

Otto album (dei quali almeno quattro di altissimo livello) in poco più di cinque anni sono una produzione vertiginosa ed è dunque normale che l’ispirazione cominci a diminuire, quanto meno ai livelli di vertice; questo è un processo naturale che non fa sconti neppure agli Uriah Heep. Nasce così il tentativo di “indorare la pillola”, inserendo tra i riff più cari alla band qualche elemento in chiave pop/rock, nella speranza di riguadagnare il terreno perduto.

Nel giro di tre mesi il gruppo ultima le registrazioni del nuovo disco, High and Mighty, che viene pubblicato per l’etichetta Bronze nel giugno del 1976; sarà il secondo e ultimo a vedere in formazione l’ex Family e poi King Crimson John Wetton ma, soprattutto, l’ultimo con il cantante e membro fondatore David Byron, afflitto da gravi problemi di alcolismo.

Otto dei dieci brani in scaletta sono a firma di Ken Hensley mentre i restanti due sono composti a quattro mani con John Wetton. L’onore di aprire tocca a One Way or Another, brano scelto come singolo ed unico in cui il ruolo di cantante non è coperto da Byron ma proprio dallo stesso Wetton: una partenza spedita e graffiante in pieno stile Heep muta repentinamente, guidata dal suo timbro inconfondibile e da una possente linea di basso che donano maggiore soluzioni ad un pezzo reso trascinante anche dall’organo di Ken Hensley.

Weep in Silence si annuncia come una morbida e sognante ballad introdotta da arpeggi della chitarra di Mick Box appoggiati sul suono dell’organo. E’ poi l’elettrica a rubare la scena prima del decisivo ingresso della voce di David Byron; i cori per un refrain dai toni epici precedono un secondo inserto della chitarra che chiude un passaggio grondante emozioni.

Misty Eyes riporta le coordinate musicali sul versante più incline al progressive à la Uriah Heep, tra sonorità sospese e brevi ed incisive accelerazioni di stampo hard-rock. Il risultato è un pezzo accattivante, ben congegnato ma lineare e diretto nel suo sviluppo.

Una prima brillante facciata termina con Midnight, guidata dalla chitarra e dal duo ritmico nel quale si distingue la batteria di Lee Kerslake. A segmenti e toni soffusi si succedono improvvise impennate sonore dove campeggia il suono dell’organo e poi della sei corde, con un epilogo strumentale in crescendo dove Wetton svaria con il basso.

Si riparte con Can’t Keep a Good Band Down, dotata di buon tiro e vagamente purpleiana nel suo incedere iniziale: in realtà é un passaggio intriso di un hard-rock melodico, di facile presa, dall’andamento gradevole ma pure prevedibile.

Ritmo e velocità in prima battuta, poi il piano old style, rapide fughe in avanti e rocamboleschi salti all’indietro nel tempo che fu; tutto questo, assemblato in modo efficace, è contenuto nei tre minuti di Woman of the World, di certo la traccia più singolare del lotto.

Footprints in the Snow, a firma Hensley/Wetton, si srotola dolcemente tra voce, arpeggio di chitarra acustica ed un discreto tappeto del moog. La comparsa della batteria lancia il pezzo su di un andamento più sostenuto per una mid-tempo ballad suadente, in seguito arricchita da ricami dell’elettrica.

Il ritmo sincopato dei tamburi contraddistingue Can’t Stop Singing, brano orecchiabile (e, se vogliamo, particolare) che però poco aggiunge alla causa degli Uriah Heep non disponendo di uno spessore elevato.

Le cose tornano a girare meglio con la successiva Make a Little Love, felice esempio di hard-rock non scevro da qualche richiamo al southern. La ritmica lavora da manuale mentre il ruolo di solista è affidato come da copione alla chitarra di Mick Box, in grado di produrre strappi coinvolgenti.

Per finire Confession, una breve ma intensa ballad nella quale le emozioni rimbalzano tra la voce del cantante, il piano e delicati cori per un commiato indimenticabile.

High and Mighty non si pone di certo come una vetta nella discografia degli Uriah Heep ma globalmente è una buona prova, la penultima prima di un lungo e tormentato declino che prenderà il via con Innocent Victim. Inoltre regala le ultime ed indelebili prestazioni della vera voce della band, David Byron.

Max

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