Soft Machine – Fifth (1972)

Pubblicato: gennaio 21, 2022 in Recensioni Vintage
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SoMa V

Maturato dopo la pubblicazione di Fourth, l’abbandono di Robert Wyatt in casa Soft Machine pone temporaneamente lo scettro del comando nelle mani del pianista ed organista Mike Ratledge. Proprio con Fourth è cominciato un processo che porta la band ad allontanarsi dalle “vie canterburyane” sin qui esplorate (la sperimentazione e la contaminazione tra psichedelia, progressive-rock e valenze jazz), a favore di una più profonda immersione nel rock-jazz, fatta di incisive escursioni strumentali.

La band di Canterbury si trova dunque ancora una volta alle prese con un rimpasto di formazione, oltretutto in un momento di importante transizione musicale ed artistica: non c’è soltanto da sostituire un batterista (e cantante) ma pure da inserirlo in una cornice sonora che sta innegabilmente mutando, talvolta arrivando a sfiorare l’improvvisazione in uno spirito free.

Fifth viene registrato presso i rinomati Advision Studios di Londra in due periodi a cavallo tra il 1971 ed il 1972; questi corrispondono alle due facciate del disco che, nella prima, vede alla batteria Phil Howard, a sua volta sostituito nella seconda da John Marshall (ex Nucleus) che si afferma definitivamente come titolare.

Nell’estate del 1972 il nuovo album dei Soft Machine è nei negozi e, come il predecessore, non prevede parti cantate. L’incursione in ambito rock-jazz diviene se possibile ancora più marcata ma non per questo (a mio avviso) la qualità del sound ne risente: vira con decisione dall’impostazione iniziale, quella più wyattiana (per intenderci). Sottolineo questo aspetto perché invece l’impatto sul pubblico e sulla critica risulta divisivo e produce non poche esitazioni e/o resistenze.

Tre brani compongono il primo lato. L’esordio è affidato a All White a firma Ratledge; aperta da un solo spaziale e riverberato del sax alto di Elton Dean si schiude con l’ingresso di batteria, basso (Hugh Hopper) e piano Fender Rhodes per una fluida digressione fusion che trovo espressiva.

Uno sgocciolio d’acqua ed il piano elettrico guidano a lungo Drop, un passaggio che ha un sussulto con la simultanea comparsa della batteria e del basso molto presente di Hugh HopperRatledge fa correre le dita sull’organo Lowrey dal suono increspato ed il tutto ha il tipico sapore di una improvvisazione jazz partita da un tema.

Hugh Hopper è l’autore di M C. Tutto pare cominciare in sottofondo: la batteria, il piano elettrico e rade note del basso creano un’atmosfera sospesa nella quale poi si inserisce lentamente anche il sax. C’è un senso di attesa crescente, nei fatti frustrato dall’andamento del brano che invece rimane tale.

La seconda facciata registra come detto il cambio di batterista, subentra (e vi rimarrà stabilmente) John Marshall e si aggiunge, come già in FourthRoy Babbington al contrabbasso. Il via lo da As If, altra traccia composta da Mike Ratledge aperta poderosamente dai tamburi e dal sax. Basso e piatti da un lato, sax al centro, Fender Rhodes dall’altro: quando scende in campo anche il contrabbasso, i Soft Machine disegnano davvero un quadro musicale ipnotico.

C’è spazio per un breve segmento di solo drumming nel quale John Marshall espone tutte le sue indubbie qualità (L B O) per poi tornare su di un versante più morbido (pur se ben scandito dalla ritmica) con Pigling Bland, dove la melodia trova più spazio grazie soprattutto al sax di Elton Dean.

Lo stesso sassofonista firma Bone, in chiusura del disco. Un’ambientazione oscura, nervosa e quasi opprimente creata dai fiati viene enfatizzata dal lavoro sui piatti di Marshall.

In sintesi Fifth certifica la mutazione del suono per i Soft Machine, l’alveo prediletto è ormai quello del rock/jazz in qualche misura sempre di avanguardia e (aggiungo) di stampo britannico. Personalmente un disco che mi ha convinto nonostante i pareri discordanti.

Max

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