Van Halen A Different Kind of Truth 2012

Pubblicato: febbraio 3, 2012 in Recensioni Uscite 2012
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Quando circa due mesi fa ha cominciato a circolare la voce non ci volevo credere, poi le prime conferme ed infine il comunicato ufficiale: dopo ben quattordici anni tornano i Van Halen con un nuovo album, A Different Kind of Truth. L’ultima uscita, Van Halen III (1998), vedeva alla voce Gary Cherone e ricordo essersi rivelata abbastanza deludente. Fu a tutti gli effetti il canto del cigno per la band californiana orfana del singer storico oramai da tempo e purtoppo non fu una bella chiusa, anzi, piuttosto scialba ed inconcludente. Mai avrei pensato che a distanza di tanto tempo si potessero riproporre, oltretutto con il guascone David Lee Roth che ha riguadagnato la sua postazione dietro al microfono. Presenti naturalmente i fratelli VH, unico assente del quartetto originario è il bassista Michael Anhony, ormai impegnato a pieno ritmo con i Chickenfoot. Al suo posto il giovanissimo Wolfgang Van Halen, figlio del grande axe-man Eddie. I primi anni della loro carriera sono stati folgoranti, con dischi d’oro e di platino a ripetizione; le doti incredibili di Eddie Van Halen, la voce e la presenza scenica di Lee Roth, diventarono ben presto un marchio di fabbrica inconfondibile nell’ ambito dell’ hard rock.

Inutile stare qua a rinverdirne i successi sin troppo conosciuti; dopo l’abbandono del cantante e l’avvento di Sammy Hagar in sua sostituzione il gruppo visse ancora di qualche splendore riflesso ma la parabola discendente era inesorabilmente cominciata. Le vendite erano ancora confortate da buoni numeri ma la vena compositiva si era andata esaurendo.

Se in aggiunta calcoliamo i rapporti sempre abbastanza tesi che ci sono stati tra David Lee Roth e la band questa reunion ha del miracoloso davvero.

Registrato in California in massima parte presso gli Henson Studios e prodotto dai VH e John Shanks (Bon Jovi, Anastacia, Alanis Morissette, Jane’s Addiction al suo attivo) si compone di tredici pezzi, per un gioioso ritorno a sonorità hard anni ’80.

Capelli corti, look decisamente ridimensionato ed atteggiamenti probabilmente più vicini a “sereni signori” che veleggiano verso i 60 anni, Wolfgang escluso si intende.

L’opening è affidata a Tattoo, primo singolo estratto; fa effetto risentire la voce di David insieme ai vecchi compagni, dopo tanto tempo. Francamente mi sarei aspettato i fuochi d’artificio ma ascoltandolo più volte mostra comunque una rotondità avvolgente, dalla quale emergono come lampi le svisate e un assolo incendiario della chitarra di EVH. Buono l’impatto ritmico, calzante come si deve in un impianto tipicamente hard rock.

She’s the Woman è un balzo all’indietro, un viaggio nella macchina del tempo che catapulta ai tempi d’ oro della band. Tutto pare tornare, ogni cosa è al suo posto. Per tre minuti ho davvero il dubbio fosse un pezzo dell’epoca e in effetti… è così, si tratta di un brano mai editato di fine anni’ 70, ri-arrangiato ed in parte riscritto adesso. Ma fa venire i brividi.

In You and Your Blues Roth comincia a sfoderare qualche acuto dei suoi; il registro inconfondibile del singer conduce lungo un rock blues piuttosto orecchiabile infarcito di cori e dai puntuali interventi di Eddie, cui va riconosciuto il merito di riuscire a caratterizzare un pezzo anche con poche note del suo strumento.

China Town si apre con un breve ma micidiale tapping di E. Van Halen; di qui in poi la velocità di rotazione aumenta vertiginosamente, con la sezione ritmica in primo piano. Ho come l’impressione che il buon David in questo caso annaspi un pò nel tentativo di tenere il passo con il resto del gruppo.

Di altra pasta è fatto Blood and Fire, decisamente più convicente nel suo insieme della traccia precedente. Un brevissimo arpeggio di chitarra lascia il posto alla voce del cantante, dopodiche il pezzo decolla secondo uno stile caro ai Van Halen, i quali hanno da sempre miscelato scatti da centometristi ad andature molto sostenute tipiche del mezzofondo. Blood and Fire è un tipico esempio si queste ultime, con un rush finale piazzato dopo la metà dalla chitarra di Eddie VH.

Sovente i brani più brevi della band sono quelli più al fulmicotone e questo vale per Bullethead, una veloce e tipica cavalcata, appannaggio del gruppo. Dalla chitarra partono continue rasoiate, sostenute dal drumming molto massiccio di Alex VH e ancora una volta David Lee Roth riesce a disimpegnarsi bene. La potenza non è più quella di anni fa ed è normale ma di mestiere ce n’è davvero tanto.

Arrivati a As Is ci si trova a metà disco ed il passo cambia. Nuovamente ho l’impressione di ritornare a sonorità dei Van Halen di un tempo; la costruzione del pezzo è classica, assolutamente niente di diverso, gli ingredienti fondamentali e peculiari ci sono tutti ma appurare che, bene o male, ancora funzionano dopo tanto tempo è senza dubbio una cosa positiva.

Ed il passo aumenta ancor più con la seguente Honeybabysweetiedoll con il suo incedere dapprima quasi cupo e martellante; il singer si mantiene su toni bassi per conferire ulteriore atmosfera mentre la chitarra di Eddie si produce in un riff potente e distorto, colorato da brevi ma incisivi assoli. Preciso e imponente il lavoro del duo basso/batteria.

Oramai la ruggine del tempo è stata cancellata, i quattro sono lanciati e proseguono la loro corsa con The Trouble With Never, rock di matrice hendrixiana (ove si eccettui per i cori). Indefinibile il lavoro del signore alla chitarra, da ascoltare ! Negli anni su di lui è stato scritto e detto tutto ma conferme del genere fanno sempre piacere.

Outta Space non è da meno, qui DLR si lancia incurante del tempo in un cantato aggressivo e spericolato; pare di cogliere qualche lieve imprecisione ma gli va dato atto di avere ancora diverse frecce nella propria faretra. Il brano è un flash, meno di tre minuti ma sono di adrenalina pura.

Una chitarra acustica sulla quale viaggia la voce del singer, Stay Frosty, classico inciso rock’ n roll al quale nel tempo la band ci ha abituato. Esattamente dalla metà in poi si scatena l’assolo di Eddie e con lui sale tutta la band, elettrificando e dando corpo ad un brano solo all’apparenza interlocutorio. Anche in questo caso niente di sconvolgente ma il risultato finale è buono.

Non si arresta la corsa nemmeno con la successiva Big River, rock potente che reca il nome della band marchiato a fuoco. Costruzione immediata e semplice ma di grande impatto, con un Roth completamente rivitalizzato e tornato ai livelli che gli competono. Il giovane Wolfgang non fa rimpiangere Michael Anthony con le sue linee di basso possenti, nette e precise.

Beats Workin’ è la song conclusiva, unico episodio della lunghezza di cinque minuti. Onesto rock impreziosito dagli svolazzi del chitarrista che in realtà però poco aggiunge al plot ma che conferma comunque la presenza e l’insieme dei californiani.

Un’ ottima rentreè a mio parere, dopo ben 14 anni di assenza sono tornati i Van Halen che fanno e suonano…i Van Halen. L’album parte un pò in sordina ma cresce man mano, per poi decollare letteralmente nella seconda parte. Non ci sono e forse non ci potevano essere novità di sorta, il sound è quello ben conosciuto ed è ancora trascinante come un tempo. Magari oggi potrà apparire un pò datato perchè di acqua (e di musica) sotto i ponti ne è passata tanta ma credo che agli aficionados farà immenso piacere riascoltarli. Quanto alle qualità tecniche di Eddie Van Halen, un ripasso anche per i più giovani penso possa essere utile.

Max

commenti
  1. Emilio ha detto:

    Sono un fan della prima ora e questo e’ sicuramente un buon album, meglio di tutti i Van Hagar di cui escludo solo FUCK e poi qualche brano quà e la. Ci sono pezzi vecchi, e’ vero, ma non vedo lo scandalo (she’s the woman, bullethead) e qualche profondo rifacimento ma i pezzi nuovi non sono decisamente male. Rock puro senza fronzoli. Manca forse una vera HIT, ma chi se ne importa. Prima di Jump di singoli non e’ che ne abbiano fatti tanti…….
    Album che voterei 4 su 5, assolutamente da comprare.

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