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carPer motivi anagrafici non è una sensazione che ho provato direttamente. Ma posso immaginare e quasi toccare con mano l’atmosfera di attesa mista a curiosità di un qualunque fan dei Genesis, in quel lontano mese di febbraio del 1977, nel preciso istante dell’abbandono della puntina del giradischi al suo destino, tra i primi solchi di quello strano album, in cui un idolo del recente passato mostrava il suo nuovo volto nascosto dietro un vetro bagnato di pioggia e –per definizione- intriso di sapore british

Ebbene sì, tutto si era compiuto e dopo due anni e più di assenza, quando già gli ex compari avevano confermato di esistere (e come!) anche senza di lui, Peter Gabriel si era deciso a comunicare al mondo le tracce iniziali di un nuovo cammino, che lo avrebbe portato molto lontano. (altro…)

Quel gran furbone di Vincent !! A distanza di trentasei anni che cosa ti combina ? Raduna tutta la squadra, Bob Ezrin alla produzione e la band di un tempo al completo, nella quale spiccano ancora le chitarre di Steve Hunter Dick Wagner e pure una comparsata di Rob Zombie come seconda voce. Agita ben bene lo shaker e ti confeziona il secondo capitolo del suo incubo. Può essere un’idea geniale come una colossale buffonata, una sorta di autoindulgente compiacimento dei bei tempi che furono o una grandissima provocazione; ognuno lo interpreterà come meglio crede. Suona volutamente come un album degli anni ’70 e anche questo è un fatto che genera confusione, con ogni probabilità del tutto voluta. Sin dalla cover mi viene da sorridere e questo forse è proprio lo scopo dell’album, che genera ilarità e simpatia per un’artista che, con ogni probabilità, non ha più molti conigli nella sua tuba, quasi sicuramente ha esaurito i colpi di teatro e gli effetti a sorpresa ma sa ancora fare divertire musicalmente parlando. Che cosa c’è di meglio allora di un bel tuffo nel passato, meglio se il proprio ? Il lavoro in regia di Ezrin è impeccabile, perfettamente teso a ricreare insieme al vecchio gruppo di Alice quelle sonorità di allora che ancora oggi escono dalle casse. Begli assoli di chitarra “old style”, un lavoro instancabile e mai sopra le righe della ritmica (pregevole la batteria di Neal Smith) che tesse sempre una groove massiccia ma non invasiva. Ma, sopra ogni cosa, la teatralità del canto di Cooper che passa attraverso tutte le intonazioni possibili, talvolta sostenuto o contrappuntato da cori al limite del kitsch. (altro…)