Kamelot giungono con Silverthorn al loro decimo sigillo e decidono di affidarsi nuovamente ad un concept, esperimento non nuovo per la band della Florida (basti ricordare il bellissimo The Black Halo del 2005).

Tra i maggiori esponenti del power metal e comunque a lambire da vicino il territorio symphonic metal hanno in passato offerto prove degne di attenzione ed in qualche caso esaltanti. Personalmente, li reputo tra i gruppi più importanti del genere per le qualità espresse ad ogni appuntamento e sopratutto per la capacità (rara) di riuscire a non annoiare pur mantenendosi fedeli al loro genere.

Il combo, tuttora capitanato dal chitarrista Thomas Youngblood, è riuscito nel tempo a superare alcune defezioni e cambiamenti di formazione, rispondendo sempre con dischi di ottimo livello; non fa eccezione quest’ultima uscita che registra l’abbandono del cantante norvegese Roy Khan al cui posto oggi si trova Tommy Karevik, giovane singer svedese.

Il cambiamento è avvenuto nel migliore dei modi, almeno da ciò che si evince in studio, perchè Karevik mostra doti importanti e denota da subito buona personalità.

Dunque non c’è molto da aggiungere proprio perché di innovativo all’interno del progetto c’è davvero poco ma, paradossalmente, questa è proprio la sua forza; il plot è ambientato nell’800 intorno alla vicenda di una ragazza (Jolee) che muore tra le braccia dei suoi fratelli gemelli. Appartiene ad una famiglia benestante protagonista di eventi drammatici riconducibili a tradimenti e segreti.

Sono presenti anche ospiti di rilievo come Elize Ryd degli AmarantheMiro, Amanda Somervillle ed il nostro Luca Turilli.

Manus Dei è la consueta ouverture, un prologo dapprima pianistico e poi epico, imperniato su di un coro.

Il vero start è rappresentato da Sacrimony (Angel Of Afterlife), già uscita come singolo e nella quale il ruolo di voce femminile è riservato appunto a Elize Ryd. Molto riuscito il duetto vocale con Karevik qui al debutto assoluto in studio con la band. Sin dalle prime battute la sezione ritmica formata da Sean Tibbetts (basso) e Casey Grillo (batteria) si mette il luce per potenza e velocità, ben asservite però al progetto e non fini a sè stesse. Brano a tratti forse lievemente ridondante ma anche questo fa parte della struttura.

Ashes to Ashes si apre con un grintoso riff di chitarra sostenuto dalle tastiere di Oliver Palotai e dall’orchestrazione a cura di Miro; andamento molto grintoso nel quale spicca di nuovo la presenza del cantante. La chitarra fulminante di Youngblood e le tastiere trascinano la band.

Sulle ali di Ashes to Ashes corre la seguente Torn dove ancora una volta è la prova complessiva del gruppo a colpire per incisività ed impatto. Nella seconda parte Youngblood si lascia andare di nuovo ad un solo tracciante.

Non può mancare una ballad e, puntuale, giunge Song for Jolee, struggente e malinconica; il piano accompagna soavemente la voce del singer che qui raggiunge il climax per pathos ed interpretazione. Grandi tappeti di tastiere completano ed impreziosiscono la bellissima atmosfera.

Archi e tastiere vengono spazzati via dall’incedere simultaneo della band per Veritas  nella quale si ripete la partizione vocale tra Karevik, Elize Ryd ed il coro. Il mood risulta sinfonico e potente, Kamelot al 100%.

My Confession è uno dei momenti più corali in tutti i sensi; tipico esempio di sonorità al limite, in bilico per scivolare verso echi inutilmente pomposi e leggeri. Qui sta la bravura della band statunitense, che con variazioni e guizzi riesce sempre a rivoltare l’indirizzo proposto.

La title track prosegue nel solco oramai tracciato, la musica rimane molto diretta ed emozionale con cambi di ritmo, squarci di luce e un senso di malcelata malinconia. Va sottolineato il lavoro importante della ritmica, instancabile ma ogni strumento ha il suo spazio in modo calibrato.

La tensione sale con Falling Like the Fahrenheit che vede ancora in azione la Ryd, ottima spalla vocale per  il cantante svedese. Notevole è anche l’apporto dell’ arrangiamento orchestrale conferito da Miro. Pezzo solenne e coinvolgente che si annuncia tra quelli di punta in versione live.

L’unico passaggio che mi ha meno impressionato è Solitaire; a ben guardare non soffre di particolari difetti o anomalie ma è l’unico che trovo leggero, prevedibile e privo di quegli improvvisi lampi che caratterizzano i precedenti.

Divisa in tre parti Prodigal Son è in definitiva la parte conclusiva, l’epilogo della storia. Funerale, drammatica e tristissima, in cui i rintocchi delle campane e il suono dell’organo fanno da sfondo alla voce accorata di Karevik, doppiata poi da un coro davvero suggestivo. Burden of Shame vede all’apice delle emozioni la chitarra di Youngblood mentre The Journey rappresenta l’apoteosi.

Continuum, strumentale, cala il sipario in modo magistrale e se vogliamo “cinematografico”.

Epici, melodici, sinfonici; i Kamelot confermano se mai ce ne fosse stato bisogno tutti i loro punti di forza e nuovamente, come per magia, riescono a produrre un nuovo lavoro che a ben guardare poco si discosta dai precedenti ma possiede il dono di non stancare, di riuscire ad andare oltre il “già sentito”. Come sia possibile riuscire in questa alchimia francamente non lo so spiegare, pare un controsenso ed invece Silverthorn, pubblicato su etichetta Steamhammer e prodotto dal solito Sascha Paeth, riesce nell’intento.

A proposito di Paeth giova ricordare che nel 2012 è stato già regista di un ottimo lavoro e cioè Requiem For the Indifferent degli Epica.

Max

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